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Fondazione Palazzo Ducale Genova

Si è dissolto, o perso, o trafugato, non so con certezza, il romanzo, intendo letteralmente romanzo, il grande racconto, su cui si fonda l’appartenenza a ogni idea, a ogni utopia, a ogni politica, a ogni comunità. Non siamo da nessuna parte se non apparteniamo a una storia, non siamo niente se non ne siamo gli autori e i personaggi, l’un ruolo è l’altro. E non c’è nessuna storia se non ci sono le sue parole, le potenti parole evocanti che la raccontino in modo unico e generino un universo di singolarità, non c’è storia senza le sue immagini, senza i suoi canti, e le sue trame, complicate e inesauribili trame. Riunirsi attorno alla forza delle parole è la condizione per generare l’azione che pretendono, quell’agire che chiamiamo politica. La costruzione di una grande idea è la costruzione di un grande sogno e un grande sogno ha bisogno di una casa, la sua casa è un grande romanzo. Nessuna idea, e conseguentemente nessun ideale, e quindi nessun sogno, può sopravvivere alle alterne vicende, alle contraddizioni che gli umani inducono nelle loro azioni, alle ovvie sconfitte, e persino alle vittorie, senza un apparato narrativo, un romanzo che non ha fine, che la sostenga e la dispieghi oltre le contingenze e le stagioni e le epoche. Il romanzo è il passato che si redime incessantemente nel futuro, Benjamin la sapeva lunga sull’argomento. E noi ci perdiamo nella più tetra delle solitudini se ci sentiamo chiamati a farne parte. È una necessità che si perde nelle pulsioni soggiacenti della natura dell’umano socievole.

Noi abbiamo conosciuto il grande romanzo della sinistra, lo abbiamo vissuto e cantato, e le generazioni che ci hanno preceduto ne hanno fatto parte per secoli, per millenni, ancor prima che i patrioti della fraternità, della libertà e dell’eguaglianza alla Convenzione si schierassero nei seggi alla sinistra. È romanzo che racconta di infinite sconfitte e lampi di vittoria, di mirabili gesta e immani sacrifici, improvvisi trionfi e repentini tradimenti, eroi e martiri, come è nella natura delle grandi storie è romanzo di migliaia di capitoli e milioni di capoversi, miliardi di immagini, infiniti autori, così che ognuno ha un posto per sé, il suo piccolo o grande racconto nel tutto. E Hugo e Steinbeck ne fanno parte quanto mio zio minatore e Pino Pinelli, Rosa Parks e il bracciante di Portella della Ginestra, e Zero Calcare e l’operaia tessile di Dakka innamorata del suo compagno di lavoro bruciato vivo nell’incendio della fabbrica.

Come sia stato possibile che questo grande fiume si sia prosciugato, questa incessante voce ammutolita? Afasia, raucedine, dislessia, bronchite cronica. Non ho una risposta, ce ne sono, ma non è così importante, discuterne non fa mai male, ma la vera urgenza è ridare vita al romanzo, riprenderne la trama, aggiungere nuovi capitoli capoverso dopo capoverso, accenderne le voci, illuminarne le immagini, riprendere a raccontare l’epopea di una bramosia infinita di dignità umana.

Intanto la destra -ecco, come viene facile pronunciare la parola destra, come è di immediata e chiara pronuncia- la destra ce l’ha il suo romanzo, e lo svolge e declama a gran voce. Ha i suoi narratori, le sue storie, le sue suggestive e vocative immagini, i suoi eroi e le loro gesta. Un grande romanzo dell’orrore, ma l’orrore è un genere che può piacere, la malattia dell’anima può essere un gran conforto, una valida difesa per tirare avanti. Una narrazione che attinge al profondo, all’ancestrale, il terrore, la morte, le divinità salvatrici, il rifugio e il perdono di ogni umana bruttura nel cuore immacolato della vergine, la vita che si fa cibo, la vita che si riduce a pane per i denti. Se chiediamo a un ragazzo, anche un ragazzo impegnato nelle belle battaglie per la salvezza del pianeta, se ha idea di cosa sia la sinistra, se ha fatto il liceo risponderà con quello che ricorda della lezione di storia che gli ha impartito l’insegnante, se ha fatto un professionale non saprà dirne nulla. Ma se gli chiediamo della destra, saprà in ogni caso rispondere, la destra la vede, la sente, la constata ogni giorno, il suo romanzo lo chiama incessantemente.

Convocare i narratori, chiamarli all’impellente servizio del romanzare. È un’arte il romanzare, ma è anche una necessità, tutti siamo narratori, alcuni tra noi ne sono formidabili propulsori. I vecchi tra noi sono portatori della memoria, custodi dell’antico romanzo, i giovani tra noi sono divoratori di memoria e costruttori del romanzo a venire, le vecchie generazioni si redimono nelle nuove. Ci deve essere una ragione per cui i ragazzi da sempre ascoltano molto più volentieri i nonni dei padri e i vecchi raccontano più volentieri ai nipoti che ai figli, immagino che ci sia un vecchio problema con il presente. Ci sono da riprendere i mille fili delle trame abbandonate, ci sono da tessere le nuove. Occorre l’umile servizio, e a quel servizio occorre un supporto. Per secoli il supporto perfetto è stata la trasmissione orale, le migliaia di voci comizianti e quelle confidenziali dei crocchi, delle camerate, dei fienili. L’oralità e la scrittura, e in particolare la trasmissione orale della parola scritta, l’enfasi, la tridimensionalità che il discorso orale dà alla scrittura. Perché al pari di Dickens, Hugo, Mazzini, Sorel, Bakunin, London, sono stati grandi narratori gli operai che leggevano ai loro colleghi le dispense di Tempi Difficili, gli attivisti che imparavano a memoria le fanzine clandestine di Mazzini per recitarle nelle riunioni segrete della Giovine Europa … È in qualche modo ancora così, solo che la matrice del supporto è diversa, forse solo più complessa. E non può che essere digitale. Uno spazio strutturato, articolato, modulato, una griglia e una rete, un’architettura, non un contenitore sordo e inerte, ma una rete di raccolta, di confronto, di intreccio, di verifica, di ogni voce disponibile, e sinceramente disponibile, alla ricostruzione e alla ripresa del grande romanzo.

                                                  Maurizio Maggiani


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