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Dove

Spazio 42R

Fondazione Palazzo Ducale Genova

Contorbia

Bipartita tra libri e immagini, la presente mostra, aperta a Genova a Palazzo Ducale dal 10 al 18 settembre 2011 in coincidenza con il trentesimo anniversario della morte di Eugenio Montale, aspira ad offrire, del maggiore tra i poeti italiani del Novecento, una serie di specimina bibliografici e fotografici ai quali è affidata la non lieve responsabilità di restituire, in modo fatalmente ellittico, nientemeno che le linee di un destino.
Indicati con i numeri arabi da 1 a 65, i libri di Montale esposti (e compendiosamente descritti sulla base delle informazioni desumibili dai paratesti) sono tratti in larga misura dalla meravigliosa collezione di quello straordinario ‘conoscitore’ genovese che è Beppe Manzitti, integrata nella circostanza da un più ridotto ventaglio di esemplari messi a disposizione dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (nn. 25, 37, 48), dal Centro di ricerca interdipartimentale sulla tradizione manoscritta di Autori moderni e contemporanei-Fondo
Manoscritti dell’Università di Pavia (nn. 18, 20-21, 39, 56), da Franca Lavezzi (n. 40), da Luigi Surdich (nn. 26 e 44) e da chi scrive (nn. 10, 16, 30, 32-33, 35, 38, 46, 50, 52, 54, 57, 59-60, 62, 64). Alle prime edizioni delle opere di Montale si aggiungono le edizioni anteriori, o più spesso successive, alla prima che presentino eminenti tratti di innovazione dal punto di vista ‘strutturale’, o anche solo tipografico o merceologico (e, in qualche caso, le edizioni di lusso che affiancano l’edizione ‘normale’), suddivise in poesie, prose, traduzioni, antologie, carteggi e cataloghi di autografi e di pastelli e disegni: opere, va precisato, pubblicate avanti il 12 settembre 1981. Fanno eccezione Prime alla Scala (n. 53) e Lettere a Salvatore Quasimodo (n. 62), entrambe dell’ottobre 1981, che hanno preso forma quando Montale era ancora vivo, dunque con la sua collaborazione l’una, con il suo consenso verosimilmente tacito l’altra; allo stesso orizzonte si è ritenuto di ricondurre il libro designato con il n. 58, W.B. Yeats-Eugenio Montale, stampato a cinque anni dalla scomparsa di Montale, nel 1986, ma composto da Franco Riva nell’agosto 1981: postremo esercizio del grande tipografo veronese morto il 6 settembre, sei giorni prima di Montale. Restano fuori del perimetro della mostra i numerosi documenti dell’attività di traduttore dispiegata da Montale nel corso degli anni; vi rientrano invece il Quaderno di traduzioni (nn. 54-56), libro di Montale pleno iure, e, in conformità con una opzione editoriale che sul filo dell’arbitrio antepone il nome di Montale a quello di Shakespeare, la ristampa Longanesi 1971 della versione dell’Amleto (n. 57) apparsa nel 1949 a
Milano presso Enrico Cederna con il titolo Amleto principe di Danimarca. Val la pena di richiamare l’attenzione sullo specialissimo rilievo dell’esemplare della princeps delle Occasioni (n. 8): la dedica all’amica Lucia Morpurgo, compagna del pittore Paolo S. Rodocanachi, segue di soli undici giorni la data del finito di stampare.
Alcuni libri e, tranne l’ultima, tutte le immagini, contrassegnate dalle lettere dell’alfabeto comprese tra la A e la N, appartengono al ‘fondo’ che la signora Gina Tiossi ha generosamente donato al Centro Manoscritti di Pavia. è forse superfluo notare che l’esiguità del palmarès addotto colloca le fotografie di Montale maturo o vecchio al di qua della soglia della otobiografia, o biografia per immagini (da Montale, peraltro, anticipatamente sottoposta a una sferzante damnatio in una delle più importanti composizioni del Diario del ’71 e del ’72, I nuovi iconografi): non si svela, comunque, un segreto se si ricorda che le fotografie K, L e M si riferiscono alla cerimonia svoltasi a Basilea il 29 novembre 1974 durante la quale Montale riceve la sua quarta laurea honoris causa, la N a una festa organizzata a Milano il 29 ottobre 1975, a pochi giorni dalla divulgazione della notizia dell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura.
“La fotografia ce la può dir lunga sulla persona ritratta, ma una cosa è certa: che non meno d’una pittura ce la dice lunga sul fotografo”, ha avvertito Mario Praz nel saggio Pittura di ritratto e fotografia, uscito nel fasc. LXI, novembre 1967 di “Ulisse” dedicato a Cento anni di fotografia e poi in Perseo e la Medusa. Dal Romanticismo all’Avanguardia (Milano, Mondadori, 1979).
Il discorso è, naturalmente, reversibile: e nella fattispecie, a tener conto delle ‘figure’ assumibili a mo’ di campioni estremi della tipologia di genere (l’istantanea ‘rubata’, il ritratto studiosamente costruito), è fuori di dubbio che gli exempla selezionati si ricolleghino, nella loro totalità, al secondo dei due poli, e rinviino, dunque, a un sottile gioco di relazioni tra il fotografo e il suo oggetto (o soggetto) che a Montale non assegna certo il ‘ruolo’ del personaggio secondario. Al contrario, pare legittimo cogliere nel modo di porsi del poeta di fronte all’obbiettivo del fotografo la non preterintenzionale (e talora callida) collaborazione a una rappresentazione capace di convertirsi, senza mediazioni o residui, in autorappresentazione (ferma restando, com’è ovvio, la ‘parte’ che va riconosciuta alle competenze, e al rango professionale, degli interlocutori di Montale, che sono Giancolombo per l’immagine A, Federico Patellani per la B e la F, Farabola per la C, Giuseppe Benzi per la D, la E e la G, Mimmo Dabbrescia per la H e la I, Uliano Lucas per la N). Con qualche ragione credo di poter individuare l’incunabulo del processo accennato nel servizio fotografico, eseguito da Eugenio Haas nella casa fiorentina di Viale Duca di Genova, 38, che vedrà la luce sulle pagine di “Tempo” illustrato del 25 febbraio-4 marzo 1943 a corredo di un celebre saggio di Carlo Emilio Gadda, Montale, o l’uomo mùsico, e della prima stampa dell’Arca: una sorta di multipla scena (e messa in scena) ‘primaria’ passibile, nei tempi lunghi, di infinite reduplicazioni e rimodulazioni.
“Firenze diede a Montale la sicurezza, il senso plenario del proprio valore”, ha scritto una volta Gianfranco Contini. Della stabile acquisizione di una simile consapevolezza le immagini ‘milanesi’ di Montale qui proposte recano più di una traccia flagrante.
Franco Contorbia

Montale, la poesia e l’amore
Come ricordare Eugenio Montale a trent’anni dalla morte? Ci sono, ovviamente, tanti modi. Ho scelto quello della nostalgia. La nostalgia non per un uomo che non ho conosciuto, ma per
un’idea e una pratica della poesia che sono andate perdute, che lo stesso Montale, a un certo punto della sua opera poetica, ha dichiarato finite e improponibili nel mondo moderno. La poesia come possibilità di sogno e speranza, a dispetto dell’amara, disincantata realtà che la ragione rappresenta. E con questa poesia, un linguaggio alto, semplice ma solenne, deputato a evocare, alludere, ancorché senza illusioni di riuscita, il miracolo di un senso. Questo miracolo, contraddetto dalla ragione, poteva essere reso plausibile dall’emozione.
Da quella del paesaggio e da quella dell’amore. Ora che sono ormai passati tanti anni dalla sua morte e ancor più ne sono passati dagli anni cinquanta, quando mise fine alla poesia intensa e possente delle prime tre raccolte per passare a una più ragionata e ironica, compassata e dimessa, ora ci si può rendere conto meglio come il primo grandissimo Montale, quello di Ossi di seppia, di Occasioni e Bufera, appartenga a un’epoca perduta, a un secolo davvero breve e concluso.
Il secondo Montale, da Satura in giù, è certamente più moderno, attuale, del primo. E spesso non meno bravo. Ma quanta nostalgia per il poeta che cercava nel paesaggio di Monterosso un sentiero per vivere e questo finiva inesorabilmente al mare su cui lui non aveva il coraggio di proseguire e allora sognava che a procedere oltre, a raggiungere il cielo e la felicità, fosse la donna amata, una e tutte le grandi innamorate della prima, straordinaria sua stagione lirica! Il poeta che adorava le sue donne e le santificava, e faceva ad esse l’offerta della propria sofferenza perché loro potessero godere la vita o, come la più intensa di loro, Clizia, potessero persino redimerla dagli orrori del male e della guerra! Quanta nostalgia letteraria ed esistenziale per una poesia che, senza alcuna presunzione retorica di vecchio tipo, ma con ritegno di linguaggio e netta coscienza intellettuale del limite, sperava ancora nel sortilegio delle parole e dei cuori e lo evocava a difesa dalla nuda verità delle cose, per cercare la maglia rotta nella rete, volare sulle alte nebulose!
Montale non c’è davvero più; specie quello dei primi tre libri, per me più tenero e profondo, più commovente e tragico. Canzonieri d’amore e sogno, dopo di lui,
non ne ha più scritto nessuno. Non perché, dopo, non ci siano stati bravi poeti; anzi, ce ne sono stati di grandissimi; ma perché l’amore e il sogno sono stati definitivamente dismessi ed è diventato impossibile, anacronistico maneggiarli ancora come grimaldelli capaci di forzare (almeno di provarci) la catena della vita insensata, di trovare e aprire l’anello che non tiene. Dopo sono venute le ideologie e un eros senza fantasia, e quella grande poesia non è più stata possibile. Ne resta la nostalgia.