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Fondazione Palazzo Ducale Genova

A cura di Matteo Fochessati, Gianni Franzone e Pier Paolo Rinaldi
2018, nell’ambito di la Storia in Piazza 2018

  La mobilitazione di massa delle Guardie Rosse durante la campagna politica della Rivoluzione culturale, lanciata da Mao Zedong nel 1966, rappresentò probabilmente il più grandioso e inquietante happening della storia.   In pochi mesi milioni di studenti delle università e delle scuole superiori furono mobilitati, come “alfieri della rivoluzione”, per “combattere ed eliminare coloro che in posti di responsabilità hanno imboccato la direzione del capitalismo” e per “favorire il consolidamento e lo sviluppo del sistema socialista”, come recitava la risoluzione adottata dal comitato centrale l’8 agosto 1966, a pochi giorni dalla pubblicazione della Lettera alle Guardie Rosse e dell’articolo Bombardare il quartier generale per liquidare i tecnocrati, con cui Mao chiamava i giovani alla rivolta contro i revisionisti e i burocrati alla guida del partito.

Questa tragica esperienza politica – degenerata in furiosi scontri tra fazioni, nella distruzione di numerose opere d’arte e simboli della cultura classica e in violenze e umiliazioni pubbliche nei confronti degli intellettuali – influenzò anche l’immaginario rivoluzionario dell’Occidente, dove il movimento studentesco e molti intellettuali aderirono con entusiasmo alla “grande rivoluzione culturale proletaria” e al suo incitamento ad abbattere il tradizionale e gerarchico sistema ideologico borghese.   In questo contesto il culto della personalità di Mao raggiunse il suo apice, nonostante nei successivi anni settanta, gravemente malato e progressivamente ai margini della scena politica, egli comparisse sempre più di rado in pubblico, sino alla sua morte che nel 1976 – insieme alla fine della “banda dei quattro”, di cui faceva parte anche la moglie Jiang Qing – decretò la conclusione della Rivoluzione Culturale.

L’immagine del “Grande Timoniere” era ripetuta ovunque: nei quotidiani, nelle riviste, nei manifesti, negli arazzi di seta, persino nei bottoni delle divise delle Guardie Rosse. E se inizialmente la brutale repressione delle Guardie Rosse contro ogni retaggio tradizionale e del passato investì pure l’attività degli antichi laboratori di ceramica, ben presto l’effigie di Mao trovò grande diffusione anche attraverso statuine di porcellana, che lo raffiguravano da solo col braccio alzato, nell’atto di salutare e incitare il popolo, o in occasioni ufficiali a fianco dei leader politici della storia recente o passata, come Lin Biao e Zhou Enlai.

Qui le innumerevoli immagini di Mao – in accappatoio dopo la traversata del fiume Yangtze (Yangzi Jiang) o con in mano la racchetta da ping pong, simbolo della distensione tra Cina e Stati Uniti – si integrarono, con identica cura maniacale dei dettagli, con quelle stereotipate dei lavoratori e con le rappresentazioni delle punizioni inflitte dalle Guardie Rosse ai supposti colpevoli di revisionismo borghese.     La Mostra è realizzata con il contributo scientifico del CELSO Istituto di Studi Orientali – Dipartimento di Studi Asiatici (www.celso.org).