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Quando

17.45

Dove

Sala del Maggior Consiglio

Fondazione Palazzo Ducale Genova

Orfeo oltre le afasie del pensiero. Sulla soglia, tra suono e concetto


Quello che viene evocato dal mito di Orfeo ed Euridice è lo stra-ordinario potere della musica e del canto…. ossia, la loro eccezionale e indiscutibile potenza “eversiva”.
Infatti, se da un lato il canto e il suo potere seduttivo sono ciò che consente ad Orfeo di infrangere la regola del silenzio cui era stata relegata l’ombra di Euridice (d’altronde, è proprio con il canto che Orfeo riesce a convincere le terribili divinità dell’Ade, e a far sì che gli restituiscano l’amatissima Euridice), dall’altro sono anche ciò che gli consente di vincere il destino parzializzante e mortifero cui il logos della distinzione lo condanna per aver infranto il divieto impostogli dalle divinità dell’Ade: ossia per essersi voltato indietro a guardare la propria Euridice (non a caso la testa, fluttuante sul fiume Ebro, avrebbe continuato a cantare, anche dopo esser stata definitivamente separata dal corpo di cui faceva originariamente parte).
D’altronde, l’unico momento di cedimento, quello che gli avrebbe fatto irrimediabilmente perdere l’amatissima Euridice, era stato un cedimento nei confronti di quello stesso logos giudicante e distinguente che la sua vocazione musicale non poteva che fargli mal sopportare (per quanto espressione dell’unico principio che consenta di distinguere il confine tra i vivi e i morti… un confine la cui inconfutabile inviolabilità, peraltro, avrebbe dovuto sconsigliare ad Orfeo di varcare la soglia che separa la terra dei vivi dall’oscurità che ospita le ombre dei defunti).
Ecco in che senso la vicenda di Orfeo ci parla dell’irrisolvibile “oscillazione” che da sempre caratterizza la natura dell’umano. Quella che si costituisce come oscillazione tra una propensione a subire il fascino del conoscere, ossia del giudizio che de-cide della verità – e che la vuole stabile, questa verità, che la vuole cioè fissare entro rigide ed inviolabili distinzioni (il cui archetipo, costituito dalla distinzione del vero dal falso, sembra esso medesimo fondato su una ancor più originaria pretesa: quella di poter dividere l’essere dal nulla) – e il bisogno di “smuovere” le fissità istituite da questo stesso pensare (giudicare) logico-discorsivo (ossessionato, appunto, dalla volontà di verità).
Di smuoverle, cioè, con l’unica azione che ci renda capaci di tanto: il fare mousiké. Custode di una potenza che alle parole e ai significati può sempre donare un ritmo, un timbro e diverse accentuazioni, ossia diverse tonalità. Facendo sì che “le distinzioni” – quelle che per un verso avremmo voluto stabili e sicure, affidabili e intersoggettivamente condivisibili – riconoscano come plausibile finanche la sospensione della propria apparentemente irrinunciabile pretesa “determinante”. E rendano possibile l’accesso ad un’altra sfera dell’esistere; nel cui orizzonte il vero e il falso non siano più riconoscibili come tali, perché al loro posto si saranno lasciate disegnare nuove e sorprendenti modalità esperienziali. Vale a dire: tutte quelle che la tradizione ha sempre ritenuto di dover confinare entro gli spazi costitutivamente incerti, e quindi difficilmente rigorizzabili, dell’estetico. E che hanno a che fare non tanto con il vero e il falso, quanto piuttosto con il bello e il sublime, ma anche con il consonante e il dissonante – tutte esperienze diverse, ma intimamente connesse ad un medesimo ed ineludibile “perturbante”.