Salta al contenuto

Dove

Sala del Maggior Consiglio

Fondazione Palazzo Ducale Genova

In realtà il titolo del mio intervento avrebbe dovuto essere Boh?etti, rompendo in due il suo cognome, come lui aveva fatto davvero, sdoppiandosi in Alighiero e Boetti, a partire da una parte della sua avventurosa esistenza. Che ha toccato più volte il tema del doppio, del sosia, della schizofrenia, rimettendo in gioco il significato del proprio mestiere e della propria identità d’artista. Quindi quel ‘punto d’interrogazione’, che squarciava e squarcia graficamente il suo cognome (ufficiale e mercantile) aveva una sua ragion d’essere, che coordinerà il mio discorso, necessariamente scoordinato. In omaggio alla sua genialità sdoppiata e paradossale. Dunque, ecco anche il senso di quel ‘boh?’, ironico e pure desacralizzante, magari persino graficamente Pop (come una lichtensteiniana interiezione da fumetto) che vorrebbe spiegare insieme la sua poetica forsennata e scavezzacollo (che distrugge appunto l’integrità del corpo e delle belle maniere dell’arte). Ma che omaggia anche la poetica dadaista del caso e del dubbio costruttivo. Che rimette ogni volta in gioco lo statuto della sua arte.
Il mio titolo è stato storpiato, perdendo di senso, ma non importa, forse è più boettiano così, enigmatico-enigmistico. Ci si sono messi insieme il capriccio del caso, una cattiva corrispondenza telefonica, la collaborazione dell’alterità. Che genera sempre un felice arbitrio e dunque è andato bene anche così.
La sua poetica forse ne viene omaggiata: la sua teorizzazione della spersonalizzazione dell’artista, che ha l’idea ma che la fa realizzare dagli altri, come è stato per gli arazzi afgani.
Il suo ritorno all’arte povera, allo zero, una sola matita ed un pezzo di carta: inventando una sua mail art, fatta di lettere sue, ma spedite da altri, di giochi di francobolli, di cruciverba postali, a distruggere la prosopopea di un’arte alta, consacrata, ispirata.
Boetti crea, in clima strutturalista, i suoi cruciverba ricamati o le tele di dama, per stiparli poi di calembours, d’incroci alchemici, di parole incrociate: che suggeriscono l’alto senso del non senso. O, rispecchiato, il non-senso del senso.

Marco Vallora
Torinese come Boetti, nato nel 1953, ama presentarsi così: “Non ho studiato storia dell’arte all’università di Torino, perché in quel momento non c’erano bravi professori. Ho studiato però filosofia, estetica del cinema, storia della letteratura, della musica, semiologia, altre ‘arti’ e linguaggi, insomma. In compenso per tutta la mia esistenza non ho fatto altro che sfogliare cataloghi d’arte, guardare quadri, scoprire i maestri della storia dell’arte. Siccome temo di annoiarmi, cerco di occuparmi di molte arti, senza diventare tuttologo. Ho scritto saggi, prefazioni, presentazioni, in vari campi; curato rassegne radiofoniche e televisive, e per ora mi sono annoiato soltanto di quello che scrivo”.

Per la prima volta il ciclo Novecento italiano oltre il pop affianca le relazioni degli esperti all’ esposizione di alcune opere provenienti da un’importante collezione privata milanese: in questa sala, dal 16 novembre all’ 11 dicembre, una selezione di lavori di Manzoni, Fontana, Rotella e Boetti offrono lo spunto ai relatori per raccontare al pubblico il ruolo di questi maestri nell’Italia del Dopoguerra, del boom economico e del consumismo, con voci talvolta molto diverse dalla parlata Pop.

Rassegna: Novecento italiano oltre il Pop